La chiesa dei SS. Filippo e Giacomo
- di Piergiorgio Degasperi
- 24 ago 2015
- Tempo di lettura: 10 min
Correva l’anno 1736, passato alla storia per il matrimonio della futura imperatrice d’Austria Maria Teresa con Francesco Stefano di Lorena, quando a Sardagna si iniziò la costruzione della chiesa curaziale. L’austera facciata si presenta a capanna, con diversi elementi tipici del tardo barocco, come l’oculo, il finestrone a lunetta e un'unica navata interna con la volta a botte ribassata con delle lunette in corrispondenza delle finestre laterali. Ma non voglio parlare dello stile della chiesa, voglio piuttosto soffermarmi sulla sua storia, e sul susseguirsi di lavori nel corso degli anni, fino a renderla come la vediamo noi oggi. Il principato di Trento era governato del principe vescovo Domenico Antonio Thun, ed era nella fase del declino come tutti gli stati ecclesiastici dell’impero, ormai considerati non più come uno stati elettori ma dei semplici sudditi. Nel 1734 arriva a Sardagna un nuovo curato, Don Giovanni Battista Marchetti, successore di don Simone Grammatica. Il paese si è ingrandito, e la popolazione è aumentata e si sente la necessità di costruire una nuova chiesa, visto che quella vicino alla rupe è piccola e scomoda, basti pensare alle difficoltà di spostamento durante la stagione invernale, in un epoca in cui ancora non esistevano mezzi spargisale e spalaneve. Nell’archivio parrocchiale si trova un documento sul quale è scritto che, dopo lunga ricerca, si è trovato il luogo più idoneo dove erigere la nuova chiesa. Questo luogo si trova di fronte alla canonica, al centro della Villa di Sardagna, dove ci sono due orti, uno di proprietà di Giuseppe dei Gasperi, figlio di Antonio del valore di 200 ragnesi, l’altro di proprietà dei nobili fratelli Terranovi del valore di 80 ragnesi, che vengono donati alla curazia di Sardagna. Giuseppe dei Gasperi, che di lavoro faceva il mugnaio, dichiara di donare il suo orto alla condizione che nel giorno dei Santi Simone e Giuda venga distribuita alla popolazione bisognosa “2 staie di frumento convertite in pane” e che vengono celebrate a suo ricordo 4 messe annue in perpetuo. I nobili Terranovi all’inizio non vogliono donare il loro orto, fino a quando non interviene il conte Gerolamo Bucelleni, canonico della cattedrale, che aveva una residenza estiva nel paese, decidono di donarlo, alla condizione di poter mettere in chiesa un sedile privato dal quale seguire le celebrazioni liturgiche, e di celebrare 50 messe all’anno in perpetuo in loro memoria. In questo documento c’è la descrizione della zona prima della costruzione della chiesa. Gli orti erano pianeggianti, ci si accedeva da un cancello posto di fronte alla canonica, ed erano recintati da un muro di sassi a vista. Un muro in pietra, posto dalla parte opposta all’entrata alle campagne, sosteneva invece una strada lastricata in sassi. Questa via passava nella parte superiore dell’attuale piazza S.S. Filippo e Giacomo. Nell’orto di Giuseppe dei Gasperi, che grosso modo occupava la zona della piazza a sud e il sedime dell’odierna chiesa, era presente una piccola costruzione in sasso con il tetto in legno e la copertura in coppi per il ricovero degli attrezzi agricoli, alcuni filari di vigne, quattro alberi da frutto, ed il resto era coltivato ad orto. Nella campagna dei nobili Terranovi, che occupava circa la zona del presbiterio, sacrestia e campanile, erano presenti 10 viti, mentre il resto era coltivato ad orto. Dove la via Toresela si divideva in due, sul confine degli orti c’era un capitello in pietra, con all’interno una statua della Madonna. Gli orti arrivavano fino all’attuale vicolo che collega Via Domenico Zeni con Via Gerolamo Bucelleni. La canonica era più piccola, mancava la parte dove ora c’è l’ufficio del parroco, è stata aggiunta nel 1796, come possiamo notare dalle finestre dell’ufficio che non sono allineate con le altre dello stesso piano, o dalle foto precedenti al restauro realizzato da don Emilio Zeni dove è visibile lo sfalsamento delle finestre anche ai piani superiori. Il 30 novembre del 1736 Giuseppe dei Gasperi, davanti al notaio Sardagna, in contrada della Morte a Trento dona il suo orto, mentre il 3 dicembre del 1736 è la volta dei fratelli Terranovi. Non si sa nulla della costruzione, chi fu il capomastro o come fosse il progetto iniziale; sappiamo solo che l’otto luglio del 1742 il vescovo suffraganeo Gianmichele conte di Spaur e Valler, su delega del principe vescovo Domenico Antonio Thun, consacra la nuova chiesa, ponendo nell’altare le reliquie dei santi Teodoro e Bonifacio. Questa fu la prima visita di un vescovo, di cui si conservi memoria a Sardagna. Per rivederne un altro in paese si devono attendere 153 anni: nel 1895, il vescovo Carlo Eugenio Valussi effettuera una breve visita. Doveva essere presente il principe vescovo, ma dopo un avvio positivo del principato improntato sulla rettitudine temperanza e vigore, si lasciò andare ad una vita disordinata con ripercussioni sull’amministrazione del principato, tanto nelle cose politiche che in quelle spirituali, quindi il capitolo della cattedrale decise di affiancargli il vescovo suffraganeo. Nello stesso anno della consacrazione della nostra chiesa, avviene anche la costruzione del nuovo altare maggiore del duomo, come “ex voto” di ringraziamento, perché durante l’assedio ricevuto dalla città nella guerra di successione spagnola, non ci sono state vittime. In un documento riguardante una visita pastorale del 1749, c’è una breve descrizione della chiesa. All’interno c’erano tre altari lignei: il maggiore, dedicato ai santi Filippo e Giacomo con le statue dei patroni, e due laterali, uno dedicato a S. Antonio e l’altro alla Madonna del Rosario, custodito dalla confraternita del Rosario il cui priore era Bartolomeo dei Mozzi. Un altare dedicato alla Madonna del Rosario era presente anche nella chiesetta vecchia, ma alla chiesa nuova lo donò la signora Angiola Caleppi. Del vecchio altare si è salvata la statua della Madonna del Rosario, ora posta in una nicchia sopra il confessionale a destra dell’entrata. La pavimentazione era in pietra, e le piastre rosse e bianche sistemate a scacchiera provenivano dalle cave di pila di Villamontagna. La chiesa era più piccola, non aveva l’abside rotonda e terminava all’altezza dell’altare. In un mobile sella sacrestia sono custoditi gli arredi sacri, i paramenti per le celebrazioni, e appese ai muri ci sono le immagini del principe vescovo Domenico Antonio Thun e del papa Benedetto XIV. Nel documento riguardante la visita pastorale del 1749 c’è anche un piccolo spaccato della vita di quegli anni. I fabbricieri erano votati dai regolani, i rappresentanti del popolo, ed erano Giobatta dei Gasperi, e Bartolomeo Gardum. C’erano ancora debiti fatti per la costruzione della chiesa e poiché i poveri abitanti di Sardagna non avevano soldi, potevano donare solo la mano d’opera. Quando, si entra in chiesa il nostro sguardo corre all’altare, alle statue, alle pitture, ai quadri. Pochi pensano a chi l’ha costruita faticando, facendo i lavori più umili; la storia non ci racconta il loro nome, ma solo quello degli artisti. La calce delle mura è mescolata al sudore dei nostri antenati, che hanno potuto solo offrire la fatica, perché non avevano altro. Nel 1749 il curato è sempre don Giovanni Battista Marchetti, 61 anni, che percepisce una rendita di 50 ragnesi l’anno. Qualche famiglia stenta a consegnargli il mezzo carro di legna previsto nel documento di erezione a curazia della comunità di Sardagna del 1679. Non ci sono lamentele sul suo operato, usa il rituale romano: ogni domenica, oltre a celebrare la santa messa, tiene dottrina e fa qualche discorso morale, ma la partecipazione a dottrina è scarsa, perché i fanciulli vengono mandati con il bestiame al pascolo. Qualcuno, soprattutto l’estate, durante le funzioni sosta fuori dalla chiesa con poca riverenza. Si allontana dalla curazia due tre volte all’anno, e chiama altri sacerdoti le confessioni. Abita nella canonica di proprietà della chiesa, assieme alla sorella vedova e alla nipote nubile. Della chiesa ci sono due copie di chiavi, una la tiene il curato mentre l’altra la usa il sacrestano, Gasparo dei Gasperi anni 79, uomo di sani principi, il cui padre e nonno erano “moneghi”. Suona le campane per la messa e per le altre funzioni religioso, per l’avemaria, per i morti, in caso di pericolo. Tutti gli oggetti della chiesa sono di sua custodia, ma non tiene l’inventario. In paese ci sono tre levatrici, le mogli dei due fabbricieri, e Catarina dei Pedri, interrogate da don Marchetti, per vedere se potevano svolgere questo ruolo. Il primo abbellimento che viene fatto alla chiesa è del 1765, quando un anonimo dona la via crucis, che oggi possiamo ammirare nella cappella della canonica. Nel 1784 vengono eseguiti i due grandi quadri che raffigurano il martirio dei santi Filippo e Giacomo, ad opera del pittore Domenica Zeni. Nel quadro raffigurante la crocifissione di S. Filippo c’è un effetto ottico: se si guardano gli occhi del personaggio che sta comandando la crocifissione, posto al centro del quadro, e poi ci spostiamo lungo il presbiterio, sembra che lo sguardo ci segua. Nel 1788 viene concesso alla curazia di avere un proprio fonte battesimale. (Questa data la possiamo trovare scritta nel piedistallo assieme al cognome del curato, don Marzari), per erigere il quale vengono sospese le rogazioni al dos de la Cros. Lo sfondo della nicchia dove è posto il fonte è stato dipinto con la raffigurazione del battesimo del Cristo al Giordano. (Si presume che anche quest’opera sia stata eseguida dal pittore Domenico Zeni.) La copertura del campanile in ceramica è stata eseguita nel 1792. Non si hanno documenti che attestano questa data, ma la si può leggere con l’aiuto di un binocolo sulla banderuola posta sulla cima del campanile. I primi lavori di restauro si hanno nel 1815, quando viene fatta cadere la volta della chiesa che minacciava rovina, e viene ricostruita. Gli altari laterali che ammiriamo in chiesa sono stati inseriti nel 1849 e provengono da una chiesa di Mezzolombardo. Prima di essere posizionati sono stati restaurati, perché erano rovinati, e mancavano delle parti. C’è una leggenda legata a questi altari. Gerolamo Degasperi detto Poloni, si era recato a Piedicastello per aiutare a trasportare in paese i pezzi degli altari provenienti da Mezzolombardo. I sardagnoli erano scesi con due carri, ma non erano sufficienti a portare tutti i componenti, una colonna non si riusciva a caricare, allora Gerolamo se la caricò in spalla e si avviò verso Sardagna. Lungo la ripida strada che sale della Ca dei Gai fece solo una sosta, prima della Cavaletta, ma non appoggiò la colonna a terra, riposò avendola sulle spalle. La forza di Gerolamo Degasperi era testimoniata dal fatto che partiva da Sardagna con la slitta del fieno sulla schiena ed arrivava a Corno senza riposare e senza appoggiarla a terra. Gli altari in legno preesistenti, sono invece stati smontati per essere venduti, chissà a quale comunità sarebbe curioso saperlo per poter andare a vederli. La chiesa è ampliata nel 1860: viene aggiunta l’abside e messo il nuovo altare,. Non c’è il progetto nemmeno dell’ampliamento, c’è invece un resoconto delle entrate e delle uscite dei lavori, dal quale si possono capire la tipologia degli interventi apportati. L’altare proviene dalla chiesa di S.Margherita di Zevio, in provincia di Verona, e arriva a Trento con la nuova ferrovia del Brennero. Osservando attentamente l’altare, fra il tabernacolo e le porte di accesso al coro, si può notare un marmo di tipo diverso: questo rattoppo è stato eseguito per adattare l’altare alla sua nuova sede. I sassi per costruire i muri della nuova abside sono stati estratti alle Crozole, i coppi provengono dalle Fornas di Sardagna, per l’orditura del tetto, si tagliano dei larici ai Scandoleri. La mano d’opera è offerta dagli abitanti di Sardagna. Durante questi lavori la chiesa viene decorata con stucchi di Luigi Comitti di Como; vengono eseguiti anche il rivestimento del presbiterio e del coro in legno, si mettono le balaustre e dei nuovi banchi. Fra il 1871 e il 1889 curato di Sardagna è don Antonio Toller, il quale scrive all’imperatore d’Austria e Ungheria per avere una grazia per la sovvenzione per l’acquisto di sacri arredi occorrenti per la nuova chiesa ed indispensabili al divin culto. Non si sa però se questa domanda sia stata accettata dall’imperatore o se addirittura non sia nemmeno stata presa in considerazione. Il nove febbraio del 1885, il fabbriciere Ignazio Berloffa, riceve una lettera nella quale si comunica che le statue di San Giuseppe e dell’Immacolata sono pronte, e che il giorno 14 febbraio arriveranno alla stazione ferroviaria di Trento, e si chiede di spedire il pagamento allo scultore Giuseppe Rungaldir a Bulla in Gardena. Nell’archivio storico del comune di Trento è depositato un piccolo progetto riguardante l’apertura delle due finestre nell’abside. Nel 1910 la chiesa viene abbellita con dei nuovi quadri: la copia della pala del Fogolino raffigurante i Santi Filippo e Giacomo e la via crucis attuale, realizzate dal pittore Luigi Ratini. Don Giuseppe Amech nel 1913, in occasione dell'anniversario costantiniano, fa dipingere da Francesco Giustiniani il catino absidale con “Il ritrovamento della Croce da parte di S.Elena”. Dello stesso pittore sono anche i quattro evangelisti e i tondi sulla volta della navata raffiguranti S.Anna con la Madonna, san Viglio e S.Rocco. Durante questi lavori perde la vita cadendo da un impalcatura il fabbriciere Giuseppe Bontempelli. Nel 1925 il campanile viene dotato dell’orologio e di nuove campane, sulle quali troviamo scritto oltre l’anno in numeri romani i nomi del papa, Pio XI, del re, Vittorio Emanuele III, del parroco don Ferruccio Dante e del sindaco, Pietro Degasperi. Dopo la prima guerra mondiale viene posta in chiesa, a lato della porta meridionale, una lapide che ricorda i 22 caduti di Sardagna nel conflitto. La lunetta della facciata principale viene donata dai reduci delle due guerre, e raffigura un campo di battaglia, con sullo sfondo la Madonna di Pozzuoli. Nel 1970 don Emilio Zeni fa eseguire i lavori di adeguamento secondo le direttive del concilio Vaticano II. In questa fase purtroppo viene un po’ rovinata la chiesa: sparisce il pulpito ligneo per far posto all’uscita dell’aria del riscaldamento, si rimuove il rivestimento in legno del presbiterio e del coro mettendolo in pietra, e si cambia la pavimentazione dell’altare. Il progetto di restauro prevedeva anche la realizzazione di due cappelle dove inserire i due altari laterali, ma non viene approvato. La chiesa viene restaurata negli anni ottanta, nel 2004 è dotata di un nuovo organo a canne e sempre negli anni duemila si colloca a fianco della porta meridionale una lapide che ricorda i 17 caduti e dispersi della seconda guerra mondiale. Nell’anno appena scorso si sostituisce il manto di copertura e l’orditura secondaria. Noi siamo ormai abituati a vedere la nostra chiesa al centro del paese, ma dobbiamo ricordarci che la costruzione di una chiesa nel corso del 1700 nei paesi del Trentino è un evento raro, poiche solitamente si ampliavano le chiese esistenti. I nostri antenati nel 1736 si sono sobbarcati un grande lavoro, sopratutto se pensiamo alla povertà in cui vivevano, e per molti anni il bilancio della curazia ha risentito dei debiti fatti per costruirla, ma nel corso dei suoi 270 anni di vita è stata ampliata e abbellita ed è giunta a noi una bella chiesa.

Comments